869 giorni di te e di noi

La Storia si ricorda dei re, non dei soldati, così, quando a 5’ dalla fine della trasferta a Cittadella a smettere la tuta è un ragazzo in maglia bianca con il numero 9 dietro le spalle, l’intera curva rossonera ha un sussulto, un brivido lungo la schiena, e non è per il vento della sera ma per un nome che lo speaker del Cittadella diffonde dagli altoparlanti del Tombolato, un nome che i tifosi del Foggia non sentivano da 869 giorni: Iemmello, il Re Pietro. Tanti ne sono passate da quelle lacrime inconsolabili tra le braccia dell’uomo che aveva riportato le folle allo Zaccaria, quel Roberto De Zerbi che aveva cementato un gruppo che a Foggia ci ha restituito l’orgoglio di essere rossoneri, mettendo d’accordo tutti, giovani e anziani, uomini e donne, nonni e bambini. Erano le lacrime del sogno svanito in quella finale maledetta contro il Pisa dell’orco Gattuso, l’incubo delle nostre notti per tutta quell’estate del 2016. Iemmello era il simbolo di quella squadra che mai nessuno qui dimenticherà.

Il Re dello Zaccheria che aveva conquistato a suon di gol e di prestazioni straordinarie insieme ai compagni di sempre: Agnelli, Sarno, Quinto, Vacca, Maza, Loiacono, Gerbo, Angelo, Gigliottì… ragazzi per raggiungere i quali era persino scappato dal ritiro del Lanciano dove lo Spezia lo aveva parcheggiato strappandolo all’affetto del suo pubblico, del suo stadio. Non si è Re per caso allora. Nessun calciatore era mai scappato da una squadra di B per ricongiungersi coi vecchi compagni e con il suo condottiero in Lega Pro, rischiando severe punizioni dalla società proprietaria del suo cartellino, mettendo a rischio finanche la sua carriera per provare a riportare una città nel calcio che più le spettava dopo decenni di torti ed umiliazioni. I suoi gol non bastarono a compiere quell’impresa, non bastó il suo ultimo rigore e quella corsa verso il centrocampo con il pallone in mano suonando la carica per quella manciata di minuti che lasciavano ancora accesa la speranza. Con quel pianto si congedó da noi non per un addio, ma per un arrivederci. Non si è Re per caso, si puó essere esiliati, ma nessuno puó spezzare il filo che lega l’eroe alla sua gente. E così è stato per lui. Due anni di tante ombre, di piccoli ma illuminanti guizzi, di troppe panchine e brutti infortuni, di operazioni.

Poi il ritorno a casa, la lunga degenza, la riabilitazione tra l’affetto di tutti e la speranza di rindossare presto la sua maglia. E così il tempo passa e il momento del rientro arriva, improvviso, nè troppo presto nè troppo tardi, ed è giusto così. La tuta sfilata, il saluto ai compagni, le ultime indicazioni dal mister, l’abbraccio con Gori ed ecco che il prato si apre ai suoi piedi, al suo rientro tra la folla che lo invoca. Quando Kragl batte quella punizione e quella palla spiove in area ci sono mille persone che saltano insieme a lui per colpirla, per spingerla in rete, perchè le favole finiscono sempre così, tra gli abbracci e i sorrisi, tra l’ebrezza e il sogno. Peró questa volta non sarà così. Mille soffi non bastano a cambiare la traiettoria di quella palla e della nostra partita. Il portiere para e la gioia muore strozzata, come le urla nelle nostre gole. Ma va bene così. Il nostro Re è tornato regalandoci ancora un’emozione, un attimo, quanto è bastato per allontanarci ancora un po’ dai nostri quotidiani affanni. Trilussa scriveva: “C’è un’ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va… Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa.”

Francesco Bacchieri – www.ilfoggia.com