Lettera aperta a Grassadonia e ai nostri calciatori
Carissimi ragazzi,
John Belushi (Bluto) nel film Animal House, all’Università di Faber, incoraggiando l’ormai depresso ed abbattuto gruppo “Delta” della sua confraternita a continuare la lotta contro i rivali snob del gruppo “Omega”, pronunciando la celeberrima frase “Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare!”, corre verso il nemico sicuro di essere seguito da tutti, ma uscito dalla stanza, voltandosi, si accorge di essere rimasto solo. Non basta una frase ad effetto per scuotere animi e coscienze. Bluto dovrà sfidare la paura e la soggezione dei suoi compagni toccando le “note” del loro orgoglio nascosto per risvegliare il loro ardore ed andare a sfidare la propria sorte ed il proprio destino con il coraggio di chi non si puó e non si deve arrendere alle difficoltà che la vita giornalmente gli propone. Questo è il messaggio che ci veicola il film di John Landis. Che il gioco, per noi del Foggia, si sia fatto duro è ormai conclamato da un paio di settimane. La classifica in rosso e i pareggi in sequenza hanno scoraggiato il più ottimista dei tifosi ed adesso è giunto il momento di comunciare a giocare da “duri”, quali siete, quali vi vogliamo.
Indossate le casacche di una squadra che non è solo calcio a Foggia, lo sapete bene. È pianti e risa, è spesso sofferenza, ma è sempre onore, passione, vita. In voi ci riconosciamo perchè in quelle maglie che indossate ci siamo noi, noi che maciniamo chilometri per gridare in faccia al mondo il nostro spregiudicato amore per una squadra che ci rappresenta, ci riscatta, ci promette giorni migliori. Noi e voi siamo e saremo sempre “il Foggia di Zeman”, Davide che sfida Golia, il coraggio e la sfrontatezza contro la forza e la potenza. Questo ci ha insegnato il boemo venendo ad allenarci per la prima volta. È e rimarrà “il maestro” perchè non ci ha insegnato solo calcio, ma ci ha insegnato che niente è impossibile per i cuori impavidi, per i puri, e quella lezione ci è rimasta nel sangue e nell’anima. È una lezione di vita che, se nel calcio abbiamo imparato bene, dovremmo forse ripassare meglio nei giorni comuni, nella realtà spesso sconsolata della nostra terra.
Ma cosa vuol dire essere “il Foggia di Zeman”? Cosa vuol dire essere ricordati da tutti per quelle stagioni ed avere ancora oggi impregnato nelle nostre divise quell’onore? Ricorderó una partita, una sconfitta, non a caso, per provare a spiegarlo a tutti voi, ma non a Gianluca, che nel Foggia di Zeman ci ha giocato per davvero e che queste cose le sa forse meglio di me. Siete dei ragazzi, non c’eravate, ma in una gelida domenica di gennaio del 1992 “quel” Foggia andó a Milano, nella scala del calcio, contro la squadra più forte del mondo, ed io c’ero tra le migliaia di tifosi arrivati da tutt’Italia per vedere Davide affrontare Golia. Quella squadra non aveva paura di nessuno perchè veniva dal lavoro e dal sacrificio non solo di futuri campioni, ma soprattutto di grandissimi gregari come Codispoti, Grandini, Matrecano e Consagra, per esempio, che vedevano un prato così prestigioso per la prima volta nella vita, ma che avevano imparato che se sai chi sei e sai da dove vieni l’erba è verde per tutti e niente è impossibile per nessuno. Quel Foggia perse quella partita ma chiuse una squadra stellare nella propria area per lunghi tratti della gara, rispondendo colpo su colpo alle folate di gente che si chiamava Van Basten, Gullit, Rijkaard, Donadoni e Baresi e che vinse solo grazie a due rigori, uno falso ed uno (forse) vero. Ai milanisti gridammo “Solo la nebbia, avete solo la nebbia!”, ma quando l’arbitro fischió la fine tutta San Siro si alzó in piedi ad applaudire a lungo, sincera, ammirata e commossa.
Quell’applauso accompagnó quei ragazzi negli spogliatoi e noi nei nostri viaggi di ritorno a casa, nei nostri sogni, e ancora oggi ci fa venire i brividi perchè quell’applauso voleva dire che ce l’avevamo fatta, che saremmo diventati storia, che se Davide non aveva battuto Golia sul campo l’aveva battuto nei cuori di tutti coloro i quali amano ed hanno amato il calcio, a prescindere dai colori. Ecco, questo siamo noi. Questo è il Foggia ragazzi. È per questo che giocate, è per questo popolo che avete l’onore e l’onere di vestirvi a strisce rossonere: rosse come la passione e nere come la sofferenza, perchè amare il Foggia vuol dire aver imparato a soffrire, a cadere ma a sapersi rialzare sempre, e sempre più forti ed uniti di prima. Vedete, gli anni sono passati, i ricordi sono ingialliti, ma noi siamo rimasti gli stessi. Chi gioca nel Foggia, ricordatelo sempre, gioca sempre per vincere, per superare gli ostacoli, per non abbassare la testa mai, contro il Milan a San Siro come contro l’Igea Virtus a Barcellona Pozzo di Gotto. Solo così si è degni di allenare il Foggia e d’indossarne le maglie. Si puó vincere e si puó perdere, ma si deve farlo da “Foggia”, a testa sempre altissima e avendo dato tutto fino all’ultimo secondo, perchè questo è il nostro ed è il vostro destino. Non dimenticatevelo mai. Il Livorno non è il Milan Campione del Mondo di Capello e il Foggia di Zeman non c’è più, ma il Livorno domenica sarà una montagna da scalare perchè è solo arrivando a quella vetta che darete una svolta a questo campionato una volta per tutte. Lo sapete, lo so. Io ho sempre scommesso su di voi, ci ho messo la faccia e se ho avuto l’ardire di scrivervi questa lunga lettera è perchè so chi siete e quanto valete. Facciamolo vedere a tutti. Bob Kennedy spesso citava una frase di George Bernard Shaw: <C’è chi vede le cose come sono e dice: “Perché?”. Io invece sogno cose mai viste e dico: “Perché no?”>.
E allora perchè no ragazzi? La palla è al centro, tocca solo a voi farci sapere ancora di esistere.
Francesco Bacchieri – www.ilfoggia.com