Il 29 maggio del 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, il mondo del calcio conobbe una tragedia che costò la vita a 39 persone e che giustificò un brusco giro di vite in tutta Europa contro ogni forma di violenza a margine degli spettacoli sportivi in generale e del calcio in particolare. La tragedia colpì l’opinione pubblica nel profondo e così, sin con la legge 401 del 1989, passando per la legge Amato del 2007, e via via fino all’approvazione del celeberrimo Decreto Legge 187 del 2010 (conosciuto meglio come “Decreto Maroni”), è stato tutto un susseguirsi di decreti a variazione, emendamenti, integrazioni, leggi e leggine in materia di sicurezza ed ordine pubblico negli stadi, scandite – secondo le migliori abitudini italiane – non già da una precisa politica di prevenzione prima e contrasto poi alla violenza, ma dettate unicamente dalla necessità dei governanti di turno di dare risposte immediate all’opinione pubblica in seguito a singoli episodi luttuosi direttamente o indirettamente legati al tifo organizzato.
Si sa che l’Italia è il Paese delle leggi “per necessità di cronaca”, laddove primeggiamo al Mondo per numero di norme in quanto, piuttosto che legiferare partendo dai capisaldi del vivere comune, si emanano direttive “isteriche” legate ad eventi più o meno criminali, sulla base della loro eco massmediatica. Dunque in Italia non esiste una legge che tuteli le donne, i minori, o l’ambiente e così via, sulla base del principio che è giusto punire chi prevarica, violenta o uccide una donna, violenta o rapisce un bambino, inquina o deturpa il paesaggio, ma esistono una innumerevole serie di norme e decreti, a modifica dei precedenti, che si incatenano uno sull’altro, inasprendosi conseguentemente all’ultimo caso di femminicidio, piuttosto che all’ultimo eclatante episodio di pedofilia o alla più recente scoperta dell’ennesima discarica abusiva nella terra dei fuochi. Il risultato è che in questo caos legislativo da ultimo, non a caso, finisce per prevalere il detto latino “Summun ius, summa iniuria”, dove le vittime finiscono per essere proprio gli stessi cittadini assieme alla sempre più derelitta giustizia italiana.
Nel convivere civile troppe regole, o troppo complicate, sono difficili sia da rispettare che da far rispettare. In questo senso le norme a cui mi riferivo all’inizio sono paradigmatiche di questa situazione tutta italiana. Ad ogni tifoso morto o ferito, ad ogni celerino colpito, ad ogni disordine scaturito dentro o fuori dal campo, soprattutto in concomitanza di partite riguardanti club metropolitani, si sono succedute direttive sempre più stringenti e pene sempre più dure e repressive, spesso senza logica e proporzione. Perdonatemi l’ardire, ma il diritto è un’altra cosa. Basterebbe seguire la lezione di Newton, secondo il quale in natura ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, per trovare il bandolo della matassa, piuttosto che rendere la reazione innaturalmente abnorme rispetto all’azione, cosa di fatto inaccettabile in un consesso civile. Ad ogni comportamento criminale, dunque illegittimo, data per scontata la univocità della norma infranta (cosa che in Italia risulta spesso quasi un’impresa), deve corrispondere una punizione “adeguata” (non certo suggerita dal clamore della notizia di cronaca), ma soprattutto “educativa”, come suggerisce (per non dire ordina) l’art. 27 della Costituzione al comma 3.
Non solo, è sempre la Costituzione che, preferendo la prevenzione del reato alla sua persecuzione, esclude che la pena debba essere in tutti i casi afflittiva (per non dire iniqua), tendendo sempre alla volontà di educare, attraverso la giusta pena o la giusta sanzione, dunque a prevenire piuttosto che reprimere la commissione di un reato. Purtroppo il clamore che l’evento calcistico suscita nel nostro Paese ha, di fatto, esasperato la tendenza a legiferare d’impulso piuttosto che di raziocinio, a tal punto che non solo gli ultras, ma esimi giuristi, hanno più volte intravisto aspetti di incostituzionalità in molte delle norme tendenti appunto solo a punire, a vietare, piuttosto che ad educare, in materia di contrasto alla violenza. Intanto con l’introduzione del provvedimento del DASPO (inibizione temporale ad assistere ad avvenimenti sportivi o a spettacoli pubblici in generale) si è passati tranquillamente sopra l’art. 16 della Carta Costituzionale che garantisce la libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini italiani essendo evidente che, qualora al provvedimento sanzionatorio si accompagni l’obbligo di firma in caserma in occasione dell’evento sportivo o pubblico, questa libera circolazione è di fatto inibita. Poi c’è la palese violazione dell’art. 19 che garantisce la libertà di espressione e di opinione.
Senza andare troppo lontano, a Chiavari, a noi tifosi del Foggia ci è stato impedito di esporre sulle tribune uno striscione che esprimeva l’opinione che “non ci avrebbero piegato mai”, opinione che, di contro, non infrangeva alcuna norma, non ledeva la libertà o la dignità altrui e soprattutto non inneggiava o istigava alla violenza. Poi ci sono tutta una serie di comportamenti da parte di chi è preposto a garantire l’ordine pubblico che lasciano quanto meno perplessi e che se forse non infrangono i diritti costituzionali garantiti, di sicuro infrangono leggi ordinarie in materia di privacy, come la Legge 675 del 1996 e i suoi successivi aggiornamenti. L’uso e la consuetudine, in alcune circostanze, di fotografare insieme alla propria carta d’identità chiunque assista ad un evento calcistico in quanto parte della tifoseria ospite, come fosse un delinquente qualsiasi colto in flagranza di reato, a mio avviso è censurabile, soprattutto se poi si è da tempo immemore introdotto l’obbligo di ingresso muniti di titolo nominativo e documento di riconoscimento alla mano (allora quante volte bisogna essere identificati?) Abitudine consolidata non solo in conseguenza di un evento delittuoso, ma anche in forma preventiva, come successo a noi a Cosenza in un piazzale alla periferia della città, prima ancora di arrivare nei pressi del San Vito.
Per tacere poi delle ripetute e quasi vessatorie perquisizioni prima, durante e dopo l’ingresso ai tornelli da parte non solo di agenti di pubblica sicurezza, ma anche degli stewards, personaggi investiti dalle norme attualmente in vigore di un potere che, obiettivamente, esubera le competenze di chi non può avere la maturità, il controllo, la preparazione culturale e l’addestramento equiparabili ad un pubblico ufficiale. Non nel XXI secolo, ma nel ‘700, Cesare Beccaria sosteneva che “Ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico” e che per prevenire i delitti bisogna fare leggi chiare e semplici, dunque comprensibili da tutti. Ma Beccaria andava molto oltre quando all’articolo 41 del suo “DEI DELITTI E DELLE PENE”, in materia di prevenzione dei reati, affermava che “Il proibire una serie di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi”. Tutto questo prologo per dire che per regolamentare il tifo negli stadi e ridurre, se non eliminare, ogni forma di violenza e di malcostume, il legislatore ha fatto tutto il contrario di quello che non solo il celeberrimo illuminista milanese andava pontificando tre secoli fa, ma che persino il buonsenso avrebbe suggerito, impaludandosi in un caos legislativo dal quale anche un laureato in legge farebbe fatica a districarsi.
Il fallimento di questa politica caotica e pruriginosamente repressiva sta nei fatti e nelle cronache più recenti, dove continuano a contarsi morti e feriti e dove la diminuzione dei casi di violenza non è certo imputabile alle leggi e all’educazione, ma piuttosto ai divieti e al sempre maggiore uso (ed abuso) di forze di polizia che costano denaro al contribuente e che sono distolte da compiti più generali di ordine pubblico. In poche parole uno Stato che non riesce ad educare i propri cittadini, ma che deve ricorrere alla repressione o ai divieti “sic et simpliciter” per evitare comportamenti delittuosi di chi assiste ad una partita di calcio, ha fallito il suo compito, anzi, al contrario, ha peggiorato la situazione. Sembra quasi per assurdo (ma non troppo) che il fine ultimo sia quello di inibire l’accesso agli stadi a chi vive la partita con la passione del tifoso, i cori, i colori, la rivalità di campanile, le coreografie, l’organizzazione delle trasferte. In sintesi si vorrebbe cambiare di connotazione il mondo ultras, una realtà che, comunque la si pensi, disintossicata dalle devianze, sarebbe invece da salvaguardare, da incoraggiare quale fenomeno culturale e di costume, invece di interdire in ogni sua forma di espressione, arrivando persino a vietare e sanzionare l’uso di innocui fumogeni, piuttosto che l’ingresso di tamburi e di megafoni, di aste in plastica tubolare per le bandiere, di alcuni supporti scenografici alle coreografie, il tutto sempre a “discrezionalità” del funzionario di turno, perché ci devono spiegare perché se un asta porta bandiera in plastica può entrare a Cesena a Cittadella è invece vietata.
Nessun legislatore ha mai chiesto ad un ultrà cosa proporre in materia, nessun legislatore si è messo dalla parte di questa realtà sociale, l’ha studiata nel profondo e ha cercato di esserne interlocutore piuttosto che antagonista. Ma soprattutto nessuno ha mai evidenziato come i gruppi organizzati nel calcio ne rappresentino l’essenza, una parte integrante utile e necessaria a rendere lo spettacolo unico nel suo genere, tale da coinvolgere una larga percentuale della popolazione a prescindere da cultura, religione, politica, sesso, stato economico e sociale. A chi piace il calcio senza ultras? Ma, ancora meglio, ha senso il calcio senza ultras? Almeno quello che conosciamo noi, quello che seguiamo tutti, quello che ci piace e ci appassiona no, non piace, come non ci piacciono gli stadi vuoti e muti. Anni fa a Boston ho assistito ad una partita di basket fra i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, una delle due squadre più famose dello sport più seguito negli States. Uno spettacolo grandioso. Una festa dello sport. Qualcosa di bello da ricordare. Ma la passione? Ecco, io ho visto in quell’occasione entusiasmo e delusione contrapporsi, grandi emozioni certamente, ma non ho sentito la passione, quel sentimento che solo il calcio, come lo intendiamo noi, sa dare.
La passione, sì, quella che ti prende dentro, che ti coinvolge, che va aldilà dell’evento sportivo, della performance dell’atleta, del giudizio estetico. Il viso terreo, la paura, oppure le lacrime, la gioia incontenibile, il tremore, in quello stadio a Boston io non l’ho visto e non l’ho sentito fra tutta quella gente sugli spalti intenta a mangiare hot dogs e a bere birra, ma soprattutto semplicemente a divertirsi. Ed è qui che sta tutta la differenza tra “quel” mondo e il nostro. Lo sport è divertimento, è spettacolo. Il calcio no. Il calcio è passione e sentimento. Il calcio è una fede, un modo di essere, qualcosa in cui credere e riconoscersi. Ecco perché nel calcio ci sono gli ultras e nel basket americano, come nel football australiano o nel polo britannico no. Per fare un esempio artistico che dia l’idea di quello che intendo dire, prendo ad esempio due movimenti artistici di due epoche diverse, l’impressionismo ed il cubismo, e due autori che meglio le rappresentano come Claud Monet e Pablo Picasso.
Se guardo un “Campo di Papaveri” di Monet ne apprezzo lo stile, i colori, il senso di pace e di serenità che diffonde, insomma, mi godo lo spettacolo. Ma se guardo “Guernica” di Picasso non mi soffermo certo sui colori, sulla tecnica, sulle forme, non mi godo nessuno spettacolo, ma mi appassiono ed allo stesso tempo mi prende quello che rappresenta, quello che mi comunica, soffro insieme a quelle figure difformi che rappresentano la crudeltà della guerra, non sono solo spettatore, ma mi sento coinvolto in quel dramma. Eppure, nella loro diversità, entrambi sono arte, entrambi sono quadri dipinti da due artisti univocamente riconosciuti come tali, ma rimangono due cose differenti, sono due patrimoni allo stesso tempo comunque da salvaguardare, pur non essendo paragonabili. Chi vuole far diventare il tifoso di calcio in Italia simile al tifoso di basket negli Usa vuole l’impossibile, vuole trasformare Picasso in Monet, vuole confondere il cubismo con l’impressionismo, vuole cambiare la storia e la cultura di questo Paese.
Circa un mese fa, a Padova un tifoso del Foggia, un ultrà, dopo aver visto sfumare incredibilmente una vittoria ormai data per scontata, a fine partita, in un momento di rabbia – sbagliando, s’intende – ha lanciato un petardo in uno spazio vuoto fra il settore ospiti ed il terreno di gioco senza che in quel momento ci fosse nessuno in quel luogo e in quella direzione, dunque senza avere la minima intenzione di fare del male ad alcuno. Un petardo, ben inteso, non una bomba carta. Orbene, mentre chi, fra i tifosi del Padova, inseguendo e malmenando un paio di tifosi del Foggia sfuggiva alle maglie della giustizia, le attente telecamere di sicurezza dell’Euganeo riprendevano l’episodio del petardo e quell’ultrà, poche settimane dopo, si è vista arrivare la digos a casa, come fosse un terrorista di Prima Linea, un pericoloso delinquente o un latitante mafioso, e si è visto sottoposto a giudizio per il reato ascrittogli, rischiando da uno a quattro anni di reclusione e l’interdizione dallo stadio fino a otto anni.
Ebbene, proprio a Foggia, durante la partita casalinga contro il Benevento, i tifosi della strega hanno esploso petardi, cipolle, bombe carta, gettandole a ripetizione con l’intenzione di fare del male sia sul terreno di gioco durante la partita (a pochi passi da un loro stesso calciatore) sia in mezzo alla gente che assisteva alla partita dalla Curva Mancini, il tutto senza che si sia mai saputo quali provvedimenti e contro chi le istituzioni preposte abbiano agito per scovare e punire i colpevoli di quella deplorevole azione, mentre le autorità sportive comminavano la stessa sanzione pecuniaria – e per le stesse motivazioni – sia ai carnefici (gli ultrà beneventani), dunque al Benevento, che alle vittime (gli ultrà della Curva Nord), quindi al Foggia. Ma a Padova qualcuno si è visto addirittura diffidato e a rischio di conseguenze penali per essere stato ripreso dalle solite videocamere con un temperino in mano, nel dopo partita e nei pressi della propria autovettura – temperino usato solo per tagliare pane e salame – perché, nello stesso momento, qualcuno discuteva animatamente con un addetto al parcheggio che, dopo aver fatto pagare la sosta, intimava a tutti di liberare l’area con fare perentorio, scatenando la reazione verbale – sbagliata anche questa – di un tifoso un po’ sbronzo che al contrario non ha subito alcuna conseguenza.
Sempre per rimanere a casa nostra, l’anno scorso, dopo il derby al San Nicola, sempre a causa di un petardo esploso nei pressi di uno steward, la digos ha identificato ad uno ad uno tutti gli occupanti del settore ospiti, arrivando a colpire con un provvedimento di diffida anche chi, per assurdo – così mi riferiscono i suoi amici – a quella partita non aveva nemmeno assistito e che solo mesi dopo, sostenendo ingenti spese legali, è riuscito a dimostrare la sua estraneità ai fatti. Di questi episodi di ordinaria ingiustizia potremmo raccontarne a decine. Tutto questo non solo alimenta la violenza anziché reprimerla, perché diffonde un senso di ingiustizia diffuso nelle vittime di queste punizioni e nei loro compagni, ma diseduca in quanto, pur ammettendo la colpa, aumenta il senso di impotenza patito da chi si vede colpito da una sproporzione assoluta fra quanto commesso e la pena comminatagli. Prendendo sempre a prestito una citazione del Beccaria mi senti di confermare che “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile” (intendendo per vicinanza non solo l’immediatezza della giustizia rispetto al reato, ma anche la proporzione fra quanto commesso e quanto sanzionato, altro tema cardine di tutto il suo pensiero illuminato). Tutto ciò è molto lontano dal concetto di educare visto che sempre nel trattato “DEI DELITTI E DELLE PENE” si legge che “Il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione”.
Ma può mai essere educativa una pena ingiusta? Può mai essere educativo sparare nel mucchio – chi si coglie si coglie – senza distinzioni di sorta? È perseguibile dallo Stato la logica del “colpirne uno per educarne cento” che proprio quello stesso Stato ha combattuto all’epoca della lotta armate e delle Brigate Rosse? I DASPO sono diventati non un deterrente ma un’arma di dissuasione di massa dal frequentare gli stadi in generale e le trasferte in particolare. Un modo per sfoltire i ranghi di chi fa del tifo una ragione di vita. Un modo per trasformare gli ultras, in questa lucida follia, in manichini da teatro senza arte né parte. Anche a Firenze, anni fa, i “benpensanti” hanno provato a dare regole al calcio in costume, tradizione secolare del capoluogo toscano. A causa di una partita degenerata in rissa, hanno provato a dissuadere, attraverso l’applicazione sistematica della legge, i protagonisti di quell’evento a praticarlo, contestando regole e comportamenti che in quell’evento e in quel contesto sono stati da sempre tollerati in una sorta di “zona franca” che non è arbitrio, non è privilegio, ma è tradizione popolare, dunque cultura, come una Chiesa di Arnolfo di Cambio, una scultura di Michelangelo, un ritratto di Leonardo o un canto della Divina Commedia. Così hanno cancellato con un colpo di spugna una tradizione che ha impoverito la città, che ha deluso i turisti e che solo attraverso un dialogo fra i calcianti e i politici, una volta capite le ragioni degli uni e degli altri, una volta assodato che nessuno era l’antagonista dell’altro, si è arrivati a ripristinarla con regole meno medioevali ma condivise, e a rivedere sulle pedane insabbiate di Piazza Santa Croce i calcianti sfidarsi nelle tradizionali ed epiche sfide fra le squadre di quartiere.
Certo, le “zone franche”. Ci sono nelle tradizioni di eventi popolari zone franche dove si può derogare dalle regole sociali condivise, dove si possono ammettono cose che nella vita magari possono essere proibite o addirittura disdicevoli. Pensiamo al “Palio di Siena”, per esempio, dove cavalli e cavalieri sfuggono spesso alle più elementari regole del buon senso venendo maltrattati e malmenati, pensiamo al “Carnevale di Ivrea”, dove a colpi di arance ci si affronta in risse anche violente nel nome di antiche rivalità rionali, pensiamo a tutte le tradizioni cruente legate al culto del toro nella civilissima Spagna, come il “Toro Jubilo”, o la stessa “Festa di San Firmin” a Pamplona, dove animali maltrattati e persone ferite dagli stessi – impauriti o inferociti dalle torture – sono la normalità. Con questo nessuno pretende che negli stadi agli ultras sia permesso tutto. Nessuno chiede che lo stadio diventi una sorta di “free for all” senza nessuna regola. Nessuno vuole esaltare comportamenti violenti o delittuosi. Ma è un fatto che gli ultras nei nostri stadi sono un fenomeno culturale e popolare alla stregua di tanti altri non meno significativi, con la prerogativa di essere un fenomeno ciclico e diffuso, dunque difficile da gestire. Ma basterebbe stabilire quale sia quella “sottile linea rossa” che divide il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il possibile dall’impossibile, per dare a questo fenomeno, a questi ragazzi, il riconoscimento di valore culturale del loro essere tifosi, del loro vivere l’evento sportivo in maniera così intensa, così totalizzante, così esclusiva.
Parlandone tutti insieme, mettendo su un tavolo di discussione, mettendo a confronto gli uni con gli altri, sono convinto che gli aspetti più estremi e violenti di questo fenomeno sarebbero ridotti a zero senza che un solo poliziotto venga chiamato a difendere il territorio fuori e dentro gli stadi, perché naturalmente gli ultras, riconosciuti tali e pertanto “sdoganati” dal potere costituito, si autoregolamenterebbero. Tutto quello che non conosciamo ci fa paura. Tutto quello che è proibito però ci induce in tentazione. Le passioni non si spengono con la forza. Né con quella pubblica né con quella della ragione perché le passioni, in quanto tali, sono irrazionali e irrefrenabili. Il segreto è semplicemente non contrastarle sapendole comprenderle accettandole. Sento dire che il Ministero dell’Interno ha in animo di promulgare una legge quadro che, eliminando tutto l’insieme delle norme prodotte in questi ultimi anni in materia di sicurezza negli stadi, riporti quantomeno un po’ di razionalità in questo delicatissimo settore legislativo, un po’ di certezza del diritto e di proporzionalità delle pene in un campo che in parte sta scappando di mano alle istituzioni, colpendo il singolo e non punendo in tal guisa tutta la collettività. Ebbene da queste umilissime pagine, da questa umilissima testata, lanciamo un appello affinché non sia solo la politica o gli enti preposti a decidere cosa è bene e cosa è male fare perché tutti si possa godere del calcio nel modo che più ci rappresenta, semplici appassionati, semplici sportivi, così come ultras. Chiediamo che si apra allora quel tavolo convocando tutte le parti in causa, politica, istituzioni, enti preposti, professionisti del settore e, finalmente, anche i rappresentanti del tifo organizzato perché possa, alla buon ora, avere voce in capitolo, dare indicazioni e suggerimenti in un contesto e in uno sport in cui è parte integrante ma soprattutto necessaria. Il calcio che abbiamo imparato ad amare, senza gli ultras, è un’altra cosa, ha un altro sapore, è un fiore senza profumo e senza colore.
Fonte: www.miticochannel – Francesco Bacchieri