Ci sono giorni, ci sono sere, e quella di ieri è stata una di quelle, che non sarà facile dimenticare. Dopo il cataclisma che ha colpito il pianeta, la pandemia, il lockdown, la crisi economica che ancora affoga il mondo, sembrava impossibile tornare alla normalità dopo mesi e mesi di logorante attesa. E per un tifoso rossonero la normalità altro non è che palpitare per il Foggia domenicalmente, a prescindere dalla categoria. Un rito che si compie da cent’anni, puntuale, come il Borghetti per socializzare e scaldarsi prima di salire infreddolito, ma felice, su quei gradoni dello Zaccheria per incitare la tua squadra del cuore. È dimenticare gli affanni e i pensieri della vita, talvolta persino le miserie, non per sempre, purtroppo, ma per 90 minuti, e tanto basta. È abbracciarsi al vicino sconosciuto per festeggiare una vittoria, o appoggiarsi alla spalla di un amico per consolarsi e piangere di una sconfitta.
In questi mesi in cui ci dicevano che “nulla sarà più come prima” abbiamo temuto tutti che quel giocattolo ci fosse tolto per sempre, vietato da protocolli o da nuove abitudini politiche e sociali. O che ci venisse restituito rotto e rabberciato, solo il lontano ricordo di quello che era stato. Un incubo che ci ha perseguitato domenica dopo domenica, mese dopo mese, passando distratti accanto ai desolati e terribilmente chiusi cancelli di viale Ofanto o di via Gioberti, serrati e rugginosi come se non si dovessero aprire mai più.
Un pensiero assurdo, ricorrente, inquietante.
Nemmeno veder scendere in campo altre squadre, in altre categorie più ricche e blasonate, ha potuto toglierci di testa la paura che per noi quel gioco, quel rito, se lo fosse portato via per sempre il covid 19, proprio cent’anni dopo la prima volta di undici ragazzi in rossonero, pantaloncini corti e un pallone di cuoio cucito a mano a rappresentare in un campo di periferia l’orgoglio di una comunità che si affacciava al nuovo secolo piena di sogni e di speranze, dopo l’incubo della Grande Guerra, dei morti e della fame che aveva portato con sè.
Ci si è messa poi anche la ritardata (e forse inattesa) promozione a rimandare quel ritorno tanto desiderato. Le altre a giocare e noi ad aspettare, a tribolare in un’attesa più simile ad un’agonia che ad una rinascita, un lieto ritorno, quello di un amico sincero che non si rivede e riabbraccia da tempo, troppo.
Non so a voi, ma a me è venuto un nodo alla gola quando ho visto rientrare in campo quelle undici maglie rossonere, sia pure nello spettrale silenzio dello Zaccheria, dopo un’attesa che è sembrata lunga una vita, in un mondo che davvero non è più uguale a ieri e che forse non lo sarà più.
Non so a voi, ma a me è parso lo stesso udire il sostegno di migliaia di cuori assiepati come ombre vive su quegli spalti vuoti, vuoti di gente e di persone, ma simbolicamente pieni all’inverosimile di quella voglia e quella passione che solo in questa città lega i suoi tifosi a quegli undici ragazzi in rossonero, sempre diversi, ma sempre uguali, immarcescibili nel tempo, a far correre con le loro gambe le nostre fantasie e i nostri sogni su quel prato verde e rassicurante, come la speranza.
La partita alla fine è iniziata, la paura è svanita e al primo gol abbiamo riabbracciato a casa o al bar chi ci sedeva accanto, senza pensarci, incoscienti ma felici come bambini a cui quel giocattolo è stato reso, quasi per miracolo.
Il resto non conta, non conta o conta poco rispetto a come poi è finita. Già da oggi torneranno gli affanni e i problemi, la solita vita, i soliti gesti, ma rimarrà l’emozione, quella vissuta in una sera che non dimenticheró, che non dimenticheremo, non perchè si è vinto, ma perchè si è giocato, come se il tempo si fosse rimesso ad andare quando sembrava che si fosse fermato a pensare. Un’emozione che solo chi tifa per il Foggia puó condividere, perchè l’emozione non ha voce e solo chi la vive dentro intensamente la riesce ad ascoltare.
Francesco Bacchieri