Intervistando Maurizio Memo, ci siamo soffermati su una riflessione, nata spontanea sentendo parlare l’ex numero uno dei rossoneri: chi nasceva nel periodo del Foggia in A degli anni ’70 adesso è arrivato ai quarant’anni o forse più. Un tempo utile a costruirsi una famiglia, estinguere da qualche anno un mutuo, veder crescere i propri figli e i futuri nipoti. Sono passati più di quarant’anni eppure di quel Foggia ancora oggi c’è un ricordo come se quella squadra non conoscesse l’oblio. Quando intervistammo Gianni Pirazzini ci disse: “Ci sono bambini che conoscono la nostra storia e sanno chi siamo e se ci vedono per strada ci riconoscono”.
La stessa riflessione l’ha fatta Maurizio Memo: quel Foggia, quei satanelli non hanno età, fanno parte della storia di quella città, dei monumenti viventi che non andranno mai nel dimenticatoio.
Il portiere rossonero, ex attaccante e divenuto numero uno per caso, come è capitato a tanti protagonisti di “Mi ritorni in mente”, ci ha concesso in esclusiva questa intervista – ai nostri microfoni – per rivivere gli anni d’oro del Foggia, in questo che è l’85° appuntamento con lo spazio dedicato ai protagonisti del passato.
Partiamo da un evento particolare che ci ha colpito: le tue sfide con Vittorio Nocera, indimenticato bomber del Foggia negli allenamenti. In cosa consistevano?
“La sfida era questa: lui scommetteva con me che su dieci tiri, mi avrebbe fatto gol almeno sette volte. Chi perdeva pagava la consumazione al bar fuori dallo stadio. Vittorio era uno dei collaboratori di Puricelli (l’allenatore del Foggia di quegli anni, ndr) e i suoi tiri erano davvero temibili. Piazzava al limite dell’area dieci palloni e dichiarava che mi avrebbe fatto sei, sette gol e io gli dicevo che al massimo ne faceva due. Aveva un modo di calciare che quando la sfera impattava con le mani, ti bruciavano le dita. Non sempre vincevo io, erano più le volte che lui riusciva a sconfiggermi”.
Ci parli delle maglie color verde bottiglia?
“Le ricordo benissimo e se vi capita di andare sul mio profilo di Facebook, troverete delle foto con quelle maglie. Erano di lana e le indossavi ad agosto come a dicembre o gennaio. E dovevi ringraziare il signore se non pioveva, altrimenti ti ritrovavi con un peso almeno tre chili in più addosso e non c’era neanche bisogno di fare potenziamento in palestra”.
Quel verde era l’inizio di una nuova era per voi portieri. Prima di allora l’unico colore che si concedevano i numeri uno era il nero.
“Quando ho iniziato ad indossare la casacca verde eravamo agli albori degli sponsor che cominciavano ad avvicinarsi ai club. I primi che ruppero il dominio del nero furono i portieri della Juventus anni ’60, Mattrel e Anzolin. Ci sono delle foto in giro nella rete e indossavano maglie bianche con i polsini neri. Era una rivoluzione per quel tempo”.
Da attaccante a portiere: raccontaci questo passaggio
“Nasco centravanti per volere del mio maestro delle elementari, Angelo Pennisi. Giocavamo a scuola ed ero anche un discreto attaccante. Fisicamente ero messo bene, me la cavavo. Nei tornei che frequentavo nella scuola calcio dell’isola di Burano, capitava di affrontare i ragazzi dell’Istituto Scilla: i marinaretti che poi si imbarcavano a San Giorgio alla “Galileo Galilei”, la nave scuola che si trova a Venezia o le giovanili del Venezia stesso. Ti parlo del Venezia che in quegli anni giocava in A, quindi tu immagina noi ragazzini di una piccola scuola calcio, giocarcela con questi del Venezia. E un pomeriggio è capitato che si fosse infortunato proprio il portiere. E vista la mia stazza – in quegli anni i portieri dovevano essere in primis alti, se poi sapevano parare, meglio – l’allenatore di allora mi disse: Maurizio, oggi giochi portiere. Sei il più alto. Io pur di giocare avrei fatto anche il portiere. Giocammo proprio contro i marinaretti dell’Istituto Scilla. E quella esperienza non la dimenticherò mai: perdemmo per sei a zero. Dall’Isola di San Giorgio per tornare a Burano sul vaporetto a me rodeva così tanto quei sei gol presi che non vedevo l’ora di tornare a parare per prendermi la rivincita. Mi dicevo tra me e me: non sono uno che può prendere sei gol, anche se devo ammettere che nella mia carriera ne ho presi cinque dal Napoli e sei dalla Juventus. E da quel momento, senza saperlo, nacque il Maurizio Memo che poi divenne portiere”.
E con questo ci colleghiamo a Roberto Anzolin – numero uno della Juventus negli anni ’60 -, il tuo mito come portiere di quegli anni.
“Era un vero idolo, ma non solo per me: era veneto e giocava nella Juventus. In quegli anni era difficile che ci si spostasse molto lontano per giocare a calcio e lui rappresentava chi c’era riuscito e per di più giocava nella Juventus. Aveva proprio tutto per essere il mio portiere preferito. Ti racconto un episodio”.
Prego
“La mia povera mamma, mi fece una maglia di lana tutta bianca con i polsini neri. Non pensai a farla vedere ai miei amici, anzi, il mio primo pensiero vedendola fu: questa è la maglia di Anzolin. Quando iniziai a fare il portiere, a casa in quegli anni il pallone era un lusso e così mi arrangiavo con una palla di gomma. Il pomeriggio la facevo rimbalzare sul muro e mi gettavo a terra come se fossi su un campo di calcio. E quando la riprendevo, mi sentivo come Anzolin e dicevo: parata di Anzolin, come se fossi un cronista. Era il nostro divertimento e passavo delle ore a fare questi gesti. Anzolin a quell’epoca non lo vedevo mai, non è come adesso che i propri idoli li vedi ogni due secondi, quindi quella occasione in cui riuscivi a vederlo, che so, in tv o su un giornale di fortuna, mi sembrava di toccare il cielo con un dito”.
Non potevi neanche acquistare “Il Calcio Illustrato”.
“Se avevi venticinque anni o giù di lì, forse potevi acquistarlo, ma io a dodici anni cosa volevo comprare “Il Calcio Illustrato”. Mio padre mi avrebbe cacciato di casa fin da subito”.
Parlando della tua carriera: parti dalle giovanili del San Donà per approdare subito al Padova e arrivi alla Reggiana (1974/75).
“L’ultimo giorno di mercato, anzi l’ultima ora, mi chiama Scagnellato che allora faceva il segretario dei biancoscudati e mi dice che mi hanno dato alla Reggiana. Mi disse che aveva telefonato a Pietro Grevi, suo amico, caldeggiando il mio acquisto. Quest’ultimo mi prese, come si suol dire in questi casi, a scatola chiusa. Dovevo andare a Reggio Emilia a fare il secondo a Bartolini perché Boranga era andato al Cesena. Io andai con la mia umiltà di fare la riserva, gratificato dal fatto che la Reggiana era un club di serie B e aveva una buona tradizione. Invece dopo quattro cinque partite divenni il portiere titolare. E c’era Tito Corsi come allenatore che mi fece debuttare in B, giocando tutto il campionato, salvandoci”.
E arriva il momento del Foggia.
“A dire il vero l’anno successivo ero ancora un giocatore della Reggiana. Sapevo che Cesare Maldini (allenatore dei rossoneri in quegli anni) mi voleva a Foggia. Arrivammo in Puglia a giocare contro i satanelli e sceso dal pullman mi sembrava di essere già un giocatore del Foggia. I tifosi sapevano di questa trattativa e per loro ero già un idolo. Il sabato sera, a Brindisi nel ritiro, si presenta nella mia camera Don Carmelo Di Bella, l’allenatore di quella Reggiana e mi annunciava che la sera successiva non avrei giocato. Io non capii in quel momento e lui mi spiegò la trattativa in corso con il Foggia e per non attendere la finestra di mercato di novembre – allora il cosidetto mercato di riparazione si faceva in quel periodo dell’anno – andai in tribuna”.
E raccontaci il tuo arrivo a Foggia.
“Fu terrificante. In macchina con Grevi, di notte, all’uscita dell’autostrada, mi si presentano davanti strade buie, malmesse: ero veramente preoccupato e mi chiedevo dove fossi arrivato. Arrivammo al “Sarti”, il ristorante e dormimmo la notte lì. La mattina successiva si presentò il supertifoso Leone che mi fece gli onori di casa. Mi ha preso sottobraccio portandom per il centro della città e mi fece conoscere la città e alla fine volle la mancia come avevo immaginato fin dall’inizio (ride, ndr). Dopo due ore sono andato nello studio del presidente Fesce. Lì c’erano Maselli, il segretario Russo e firmai il contratto”.
Tu arrivasti a Foggia con la pesante eredità di Gabriele Trentini, altro portiere che in rossonero ha lasciato più di un ricordo.
“Ti posso dire che in quegli anni non avevamo quella percezione che si ha oggi di certe cose. Anche a Reggio Emilia Boranga era un vero mito, però a me interessava giocare se ci riuscivo. Era quello il mio orgoglio. Pensavo: se mi hanno preso, vuol dire che credono in me e devo ricompensarli in qualche modo. Lele (Trentini, ndr) l’ho conosciuto dopo ed essendo vicini, ci vediamo spesso”.
Un ricordo di mister Ettore Puricelli?
“Era come un padre per me. Mi ha perdonato anche in un paio di circostanze dove avevo fatto male. Ad esempio una domenica contro l’Inter – a Foggia – presi due gol evitabili e nello spogliatoio, preso dallo sconforto e dalla delusione di quella beffa gli dissi che la domenica successiva – avremmo giocato contro la Juventus – non avrei voluto giocare. Mi guarda e mi molla un ceffone e mi dice: se non giochi domenica, non giochi più. Contro i bianconeri mi riscattai alla grande e facemmo 0-0. Però dietro questo pareggio c’è un altro episodio che voglio raccontarti”.
Prego
“Arrivammo a Torino e c’era Cesare Maldini che si avvicina a me. Ti dico che ero vestito con la maglietta e i jeans e mi fa: Tu non potrai mai essere un giocatore da grande club. Gli chiedo il motivo e mi fa segno ad un mio compagno, vestito di tutto punto con la giacca e la cravatta: Guarda quel signore, e mi ha fatto notare Giovanni Lodetti, mio compagno di squadra, vestito di tutto punto con giacca e cravatta. Mi fece capire che per andare in un grande club, anche il vestito, anche il presentarsi in un certo modo, può contare. Da quella volta ho sempre portato giacca e cravatta. Ti ho raccontato questo per dirti che l’abito nell’ambiente calcio fa eccome il monaco e spesso una presenza di livello anche nel vestirsi, aiuta anche nelle trattative”.
Ci racconti quel 6-0 contro la Juventus e quel 5-0 contro il Napoli?
“Oh mamma! Partiamo dalla Juventus. Prima giornata di campionato (stagione 1977/78) contro i bianconeri a Torino e ricordo che a fine primo tempo eravamo sullo 0-0. Negli spogliatoi Puricelli ci fa: ragazzi, se li attacchiamo un attimo, possiamo vincerla. Finì come ben saprai con la Juventus che in quegli anni era ingiocabile. A Napoli invece Savoldi mi fece tre gol su rigore. Beppe (Savoldi, ndr) aveva quel modo beffardo di battere i tiri dagli undici metri. Nella sua rincorsa faceva quel passettino che ti disorientava e tu andavi da una parte e la palla dall’altra. Devo ammettere che quella volta a Napoli giocammo in maniera distratta e le prendemmo di santa ragione”.
Questi undici gol furono decisivi nella vostra retrocessione nella differenza reti con la Fiorentina.
“Esatto. Sono dell’idea che quella fu una retrocessione pilotata: tra una Fiorentina che aveva a due passi Coverciano e una città come Foggia – dove su venticinquemila spettatori, diecimila entravano gratis – chi volevi che retrocedesse?”.
C’è un portiere che attualmente ti piace?
“Per me Buffon è sempre il massimo. Vedi in lui l’umiltà del grande portiere. Un altro che stimavo era Handanovic, ma forse il fatto che vuol andar via, si è un po’ perso. Anche lo stesso Perin o Sirigu, non li vedo grandi campioni. Per carità, sono stato un portiere mediocre, però negli anni in cui ho giocato ho visto Albertosi, Zoff, Pulici, facevi fatica a paragonarti a loro. Ce n’erano tanti di portieri bravi e non perché loro sapevano parare meglio di questi – anche loro facevano delle papere -, ma perché dopo uno sbaglio sapevano sempre rialzarsi, con quell’umiltà necessaria che fa la differenza. Buffon stesso, a 38 anni che ancora compie certi gesti, ha un solo significato: non molla un centimetro, è sempre sul pezzo”.
Dove si nota un grande portiere?
“Come ti dicevo prima: dall’umiltà. E’ quella differenza tra un portiere normale e uno fuoriclasse. Puoi giocare in un grande club e ti capita che in novanta minuti non compi un solo intervento. Finché non arriva quel tiro che non ti aspetti e ti trovi con settanta, ottantamila persone tutte a guardarti. Ed è lì che devi dimostrare di essere pronto, reattivo, un campione”.
Tu hai detto in un’intervista: “Devo ringraziare Foggia perché mi ha fatto diventare un giocatore di serie A”.
“Certamente. Dopo tanti anni, ritrovarci come capita spesso, con i miei ex compagni, e stare lì tutti uniti, sorridenti e c’è ancora il piacere di stare insieme. Se qualcuno evento particolare, come il compleanno di Gianni Pirazzini o la presentazione del suo libro (“Una vita da capitano” – Il castello edizioni, ndr): partire in furgone e farsi settecento chilometri per festeggiarlo, vuol dire che non era solamente professionalità del calciatore, ma c’era qualcosa in più. A Foggia abbiamo vissuto anni meravigliosi che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, i bambini se ci vedono, sanno chi siamo. E questa cosa è fantastica”.
Dei piatti pugliesi hai un po di nostalgia?
“Ho la fortuna di avere un libro che mi è stato regalato e ci sono tutte le ricette delle pietanze tipiche, non solo foggiane: dalle orecchiette alle trocinelle”.
Qualche altro ricordo di Foggia?
“Proprio ultimamente cercando nei cassetti dei ricordi, ho trovato un dvd dove c’è la mia povera mamma che contrattava al mercato della frutta o dei vestiti e ricordo che le dicevo: guarda mamma che qui a Foggia non è detto che se dicono duemila lire, tu devi dar loro duemila lire. Devi partire da cinquecento lire per finire la trattativa a mille lire. Ci sono le tante amicizie che ancora oggi mi contattano su Facebook, per non parlare dell’accoglienza che abbiamo ricevuto in quei giorni quando siamo scesi giù. Pensa che mia figlia lo scorso anno è venuta in vacanza da queste parti e un signore appena saputo che era mia figlia ha voluto il mio numero di telefono per ringraziarmi e salutarmi. Sono tutte cose che ti rimangono dentro. Tutto sommato sono passati quarant’anni e ci sono ragazzini che ricordano quella squadra. Credo che la formazione di Zeman degli anni ’90 fosse più forte, però la gente si ricorda benissimo di noi. E alle volte mi fermo a pensare come mai noi non passiamo mai e non so darmi una risposta. Le persone, a distanza di tanti anni ancora oggi ricordano: Memo, Colla, Sali, Pirazzini, Bruschini, Fabbian, Nicoli, Lodetti, Turella, Del Neri, Bordon. Ricordano anche gente che non era titolare come Grilli stesso o Tamalio e penso che siamo entrati nel cuore dei tifosi anche per la nostra umiltà. Adesso passo in centro a Vicenza e vedo due giocatorini del Vicenza e sembrano di essere chissà chi. Anche dei ragazzi che giocano in Prima Categoria e fanno i fenomeni. Ecco la differenza tra il grande campione e quelli che vogliono fare i calciatori: l’umiltà. Ricordo che qualche volta capitava che qualche fotografo ci facesse qualche foto e se tu le vedi, uno aveva la maglia bianca, un altro i pantaloncini neri, un altro ancora li aveva bianchi. Non c’era questo bisogno di ostentare perché eravamo persone semplici che non avevano bisogno di altro che di normalità. Oggi tutti devono avere la divisa della squadra. Però non è tanto la divisa, ma quello che mastichi del prato verde che ti rende calciatore”.
20 giugno 1976, Foggia-Novara 1-0 con gol di Turella. C’erano ventimila persone sugli spalti e grazie a quel successo il Foggia ritorna in A. C’è quella parata su Piccinetti del Novara che ancora oggi è ricordata come un autentico miracolo da parte tua.
“Quella parata rimarrà per sempre nella mia mente e quello che mi dispiace è che non ci sono immagini di quella partita. Ero un portiere istintivo, reattivo, avevo una buona rapidità sulle gambe e c’è stato quel cross, con Piccinetti che colpisce la palla al volo. Mi vedo sbucare la sfera all’ultimo istante e con una mano sola l’ho messa sopra la traversa. La soddisfazione maggiore fu quel quarto d’ora con i tifosi che urlavano Memo, Memo, Memo. Fammi ricordare anche l’attesa, la gente che ci guardava come se dovessimo fare chissà cosa. Ricordo che quella festa non ce la siamo neanche goduta perché quell’anno il 20 giugno stesso c’erano le votazioni e io il giorno dopo avevo il compleanno di mio padre. Soltanto il giorno dopo ho visto le immagini dei festeggiamenti”.
Quando passeggio sul manto erboso dello “Zaccheria”, cosa provi?
“Siamo stati lo scorso anno, al compleanno di Gianni Pirazzini. Quello che si prova non si può descrivere perché è qualcosa che non va via tanto facilmente. Però devo dirti che quando giocavo io le curve non c’erano. Quando sono entrato facevo anche fatica a ritrovare il mio stadio: gli spogliatoi sono cambiati . Però poi camminando inizi a vedere le tue foto, quei volti sorridenti e inizi ad entrare nell’ottica di quando eri giovane e quel tempo sembra tornare indietro come per magia”.
Queste ultime righe le lasciamo a te: cosa ti senti di dire ai tifosi del Foggia?
“Li ringrazio e li ringrazierò sempre per quello che mi hanno dato. Ho giocato in piazze come Reggio Emilia, Bergamo, però Foggia rimarrà per sempre nel mio cuore. Quello che mi ha dato questa città è tutta un’altra emozione, un altro rapporto. Ce ne sono di ricordi che ho ancora dentro. Te ne dico solo uno: quando vincemmo contro il Novara quel 20 giugno del ’76 mi voleva mezza serie A: Napoli, la stessa Juventus – che venne alla carica anche l’anno dopo – e in quegli anni non c’erano procuratori, quindi i contratti te li dovevi gestire da solo. Vado dal presidente Fesce e gli dico: presidente, c’è mezza Italia che mi vuole, c’è la Juve, c’è il Napoli, insomma sono diventato importante e vi ho fatto vincere il campionato. Mi darà dieci milioni in più? Lui mi guarda: ascolta Maurizio, i dieci milioni in più devi darli tu a me che ti faccio giocare in A. Mi ha fatto penare una decina di giorni però poi me li ha dati”.
In quegli anni si andava avanti non tanto con gli stipendi, ma con i premi.
“E difatti l’anno successivo siamo stati sei mesi senza prendere soldi. Ricordo che ogni tanto veniva negli spogliatoi Armando Russo – il vicepresidente – e gettava sul tavolo dei massaggi un bel po di pacchi di centomila lire e si respirava un po”.