Noi speriamo che ce la caviamo

Noi speriamo che ce la caviamo

Marcello d’Orta, un anonimo insegnante napoletano, pubblicando la raccolta di una sessantina di temi dei suoi “sgarrupati” alunni di Arzano, paese difficile dell’entroterra partenopeo, passò alla storia per aver dato alla luce, quasi involontariamente, uno dei best seller più venduti della letteratura italiana contemporanea, per assurdo scritto da ragazzini che l’italiano lo masticavano a fatica, ma che nella loro singolare sgrammaticatura descrivevano con vivida efficacia il pressapochismo, la miseria, l’abbandono, l’anarchia e la delinquenza diffusa della periferia napoletana negli anni ottanta. Ma il successo di quel libro rimase tutto nell’ultima frase dell’ultimo tema del più terribile alunno di quella classe che, descrivendo l’Apocalisse, lascia tutti di stucco con quel “Io speriamo che me la cavo” che, dopo tanta disperazione, apre le finestre quasi inaspettatamente al sole mattutino della speranza.

Ora la scuola elementare di Anzano non è il Foggia, i suoi alunni non sono i nostri calciatori e, soprattutto, il loro maestro non è Gianluca Grassadonia, ma c’è un’attinenza tra quella storia e questi giorni inquieti e turbolenti in città, dietro le miserie e gli affanni della nostra squadra del cuore. C’è una lezione da imparare da quel libro, da quella sorprendente e commovente frase finale, scritta dal bambino che, più degli altri, quel degrado lo aveva vissuto sulla sua pelle, sul suo destino. Quella frase ci insegna che nei cuori puri, anche se segnati da una vita impossibile, alberga sempre una speranza, una luce che ci indica la strada per venire fuori dal tunnel. E il Foggia in quel tunnel ci si è infilato sin dall’inizio del campionato. Distrazione dopo distrazione, scivolone dopo scivolone, sfortuna dopo sfortuna, quella che doveva essere la squadra dei sogni, l’Invincibile Armada che ci aveva infiammato il cuore in quella domenica di fine agosto allo Zaccheria, si è rivelata poco alla volta la squadra dell’incubo, l’incubo di tornare mestamente a nasconderci nel calcio minore dopo solo due stagioni di respiro e di illusioni. Il campionato è alle battute decisive.

In primavera si decidono le sorti di tutte le formazioni, nel bene e nel male, ed è da qui a qualche settimana che tutto sarà deciso, tutto sarà chiaro, niente sarà più riparabile, il dado sarà tratto. Vincere o morire, è questo il destino del Foggia, il solito destino, aggiungerei, in una città sfortunata che paga spesso per colpe non sue, che quando cade fa sempre più rumore, perché quando sei ultimo, sei maglia nera, sei più debole ed è più semplice schernirti. Chi indossa la maglia del Foggia tutto questo lo sa, lo deve sapere. Non possiamo e non vogliamo credere che quei ragazzi non capiscano cosa hanno per le mani, quali maglie indossano, quale anelito di riscossa si cela dietro al glorioso vessillo rossonero. In battaglia il portabandiera non muore mai, perché se cade trova sempre un compagno che prende la bandiera salvandola dal cadere nel fango e nel disonore. Noi questo chiediamo a questi ragazzi ed al loro nuovo e antico maestro. Dimenticate tutto, lasciate alle vostre spalle le storie crudeli di ieri, le liti, gli insulti, la paura, i botti e gli incendi. I tifosi, la città, sono altra cosa. Siamo amareggiati, delusi, quasi disperati, ma guardiamo ancora a voi come alla nostra unica ancora di salvezza e a voi adesso questa fiducia la diamo volentieri ma ad una condizione: tenete alta quella bandiera e preservatela dal cadere nel fango, non uno, ma tutti insieme, sorreggetela e non lasciate che cada nelle mani del nemico. Non merita l’umiliazione e la polvere dell’arido terreno della sconfitta.

Ci affidiamo a voi, e in voi ci crediamo. Sappiatelo. Nonostante l’apocalisse, come quegli alunni “sgarrupati” di quella scuola di Alzano, noi ci speriamo, noi speriamo che ce la caviamo.

Francesco Bacchieri by www.miticochannel. com